Canna fumaria: natura dell’opera e rilievo del dissenso dei comproprietari

Pantelleria - Foto di Emilia Machì

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha affrontato il caso di una canna fumaria installata in un condominio, per la quale il giudice civile aveva disposto la rimozione.

Il Comune aveva ritenuto di doversi adeguare al disposto del giudice, e di essere così tenuto a qualificare l’opera abusiva, in presenza del dissenso alla installazione da parte di alcuni comproprietari.

Il C.g.a. (sentenza n. 392 del 2023) ha disatteso la posizione del Comune.

Il punto di partenza del ragionamento dei Giudici è stato il fatto che l’abusività di un’opera (che sia urbanisticamente realizzabile: come certamente è, ex se, l’installazione di una canna fumaria su un muro perimetrale di un edificio privato non vincolato) non può essere in alcun senso condizionata dall’assenso o dal dissenso degli altri comproprietari, essendo pacifico, da un lato, che i loro diritti (ivi inclusi quelli connessi all’eventuale travalicamento dei limiti imposti a ogni comunista dall’art. 1102 cod. civ., nonché la lesione del c.d. decoro architettonico dell’edificio: ai quali corrispondono diritti soggettivi individuali di ogni altro condomino, e non già interessi legittimi tutelabili in via amministrativa) non sono mai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio (che è sempre legittimamente rilasciato, senza neanche bisogno di esplicitazione, con salvezza dei diritti dei terzi); dall’altro, e quale immediato corollario di quanto appena detto, che i diritti dei terzi sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al Giudice ordinario.

Ciò vale quanto dire che la legittimità dell’intervento edilizio che “ciascun partecipante” alla comunione chieda alla p.a. di essere autorizzato a eseguire in forza della norma che gli consente di “servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto” (come testualmente recita l’articolo 1102 del codice civile), deve essere valutata dall’amministrazione (competente ad autorizzarlo solo per i profili amministrativi) senza riguardo ai profili civilistici e ai connessi limiti posti dal cit. art. 1102, perché tali profili e limiti sono tutti azionabili (dai titolari della specifica facultas agendi: che, per quanto attiene all’art. 1102 cod. civ., pertiene uti singuli a ciascuno degli altri comunisti) soltanto davanti al giudice civile.

Le decisioni del quale, tuttavia, operano (e dunque si eseguono) su piani diversi (in primo luogo, quello che facoltizza, ma non obbliga, all’esercizio dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare) e per nulla interferenti con le valutazioni amministrative di competenza comunale.

Pertanto, è viziato l’esercizio del potere amministrativo come mero “braccio esecutivo” delle sentenze del giudice civile, appunto come il Comune ha ritenuto in dovere di fare.

Senonché, altro sono gli interventi repressivi azionabili, dopo la condanna del giudice ordinario alla inibizione o alla rimozione dell’opera, dal titolare del diritto a tale rimozione (ex artt. 612 e ss. c.p.c.), e altro gli interventi in autotutela dell’autorità amministrativa: la quale, né ha bisogno di una sentenza civile per denegare, o revocare, un’autorizzazione illegittima; né è tenuta a denegare, o revocare, un’autorizzazione che sia altrimenti legittima sol perché ci sia stata, o sopravvenga, una sentenza del giudice civile (del quale, giova ribadirlo, l’amministrazione non è organo esecutivo).

L’amministrazione è invece tenuta a rilasciare il titolo abilitativo edilizio avendo esclusivo riguardo alla compatibilità urbanistica dell’opera richiesta – il che non implica affatto che essa non sia lesiva di diritti soggettivi altrui – lasciando ogni questione afferente a diritti soggettivi alla sua unica sede competente, che è il giudizio civile.

Non è infatti l’amministrazione comunale a poter valutare, neanche incidentalmente, se l’opera integri un’alterazione della destinazione della cosa comune (di cui un singolo comunista voglia servirsi in modo esclusivo); né se tale utilizzo sia compatibile con l’uso paritario altrui; né, infine, se l’opera sia o meno lesiva del decoro architettonico dell’edificio (ciò potendo evidentemente spettare, ma solo nei congrui casi, all’amministrazione dei beni culturali; che però, nella vicenda di specie, ha significativamente e correttamente ricusato ogni proprio intervento sull’edificio de quo).

Così come non è l’amministrazione comunale a dover dosare, modificare, revocare o confermare i propri atti di assenso amministrativo secondo le sopravvenienti decisioni del giudice civile: che, appunto, non spetta all’amministrazione comunale di eseguire o attuare, neanche intervenendo – in modi ritenuti correttivi – sui propri atti già adottati, o anche la cui adozione sia in itinere.

L’amministrazione civica, infatti, oltre a non avere gli strumenti tecnici per valutare i profili di cui si è detto, soprattutto non ha la potestà per intervenire in tali sensi e sarebbe, anzi, assai pericoloso – per la stessa tutela dei diritti soggettivi di tutti i soggetti coinvolti – se lo facesse, anche solo in via di stretta esecuzione delle sentenze rese dal giudice civile: giacché, per esempio, pur dopo un giudicato civile che abbia ordinato la demolizione dell’opera, le parti restano perfettamente libere di transigere o novare ogni loro diritto od obbligo scaturente da esso, mentre un esercizio della potestà pubblica volto a recepire i contenuti della pronuncia civile lederebbe il diritto di tutte le parti a ulteriormente esercitare la propria autonomia negoziale pur dopo il giudicato civile.

Altra precisazione importante è sulla natura dell’opera: il T.a.r. in primo grado aveva ritenuto l’intervento riconducibile nella categoria dei lavori di ristrutturazioni edilizia (art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001) per i quali sarebbe stato necessario il permesso di costruire. Il C.g.a. non è stato d’accordo. I Giudici hanno richiamato l’orientamento giurisprudenziale, formatosi in esito all’esame di casi analoghi, ove si afferma che «la canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione» (T.a.r. Perugia, sez. I, 30 gennaio 2020, n. 41), non sussistendo, a contrario, elementi per ritenere che l’opera in parola incida sulla sagoma dell’immobile (occorrendo, ma solo in tal caso, il “permesso di costruire”). Conseguentemente gli interventi per i quali è richiesta semmai la SCIA o un titolo “minore”, come nel caso di specie, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001 sarebbero eventualmente soggetti alla sola sanzione pecuniaria, ma non alla demolizione.

Avv. Vittorio Fiasconaro


Vittorio Fiasconaro

Di Vittorio Fiasconaro

Laureato nel 1991, consegue il dottorato di ricerca in Filosofia del Diritto nel 1997. Nel 1994 si iscrive all’Albo. Dal 1996 al 2007 dirige, dopo aver vinto il concorso, l’Ufficio Legale del Comune di Pantelleria (TP) e poi quello del Comune di Bagheria (PA). Dal 2004 al 2011 insegna Diritto Amministrativo e Diritto Processuale Amministrativo alla Scuola Sant’Alfonso di Palermo. Nel 2009 si iscrive all’Albo degli avvocati esercenti innanzi alla Corte di Cassazione. Oggi fa parte del Foro di Termini Imerese. Ha al suo attivo centinaia di giudizi in cui si e’ costituito dinanzi alla Giurisdizione Amministrativa.