Il diniego sull’istanza di concessione edilizia intervenuto dopo molti anni configura (automaticamente) il diritto del soggetto richiedente di ottenere il risarcimento del danno nei confronti del Comune?
Il Tar Palermo, nella sentenza n. 2914 del 18.10.2022, si sofferma su tale questione pronunciando rilevanti chiarimenti in ordine, appunto, alle condizioni che “giustificano” il diritto al risarcimento.
Il fatto
Il diniego di cui trattasi è stato pronunciato in relazione al mancato rispetto dei parametri relativi alle opere di urbanizzazione secondaria delle zone B. Il Comune (nel diniego) ha evidenziato la possibilità di presentazione di un nuovo progetto alla luce del nuovo progetto di PRG del Comune, compatibilmente con le misure di salvaguardia ivi dettate.
Secondo il ricorrente, alla data di emissione del diniego si era già formato il silenzio assenso sull’istanza di rilascio della concessione edilizia e che, dunque, tale diniego era del tutto “irrilevante”
“il ritardo nell’esame dell’istanza concessoria, la sospensione dei lavori e i provvedimenti intervenuti successivamente alla formazione del silenzio avrebbero reso, poi, impossibile la realizzazione dell’intervento come da progetto, stante il sopravvenire della modifica degli standard urbanistici“.
Il Comune, costituitosi in giudizio, ha con memoria, concluso per la complessiva infondatezza della domanda di controparte evidenziando come la stessa non abbia impugnato il provvedimento di diniego, asserita fonte – in ultima analisi – di danno risarcibile.
La posizione del Tar Palermo sul profilo del risarcimento del danno – La rilevanza della mancata impugnazione del provvedimento di diniego
è indubbio che la circostanza dell’avvenuta formazione o meno del silenzio-assenso (e della correttezza degli atti che hanno condotto al diniego espresso) ove fosse stata accertata in sede di impugnazione del provvedimento di diniego avrebbe reso liquida la strada verso la verifica della risarcibilità del danno asseritamente patito: detto provvedimento di diniego, però, è rimasto inoppugnato, così concorrendo la condotta di parte ricorrente ad aggravare il danno.
Norme applicabili
L’art. 1227 c.c., relativo al «fatto colposo del creditore», è applicabile anche alla responsabilità aquiliana in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c.
I due commi di questa disposizione riguardano due fattispecie diverse:
- il primo comma disciplina il concorso del danneggiato nella produzione dell’evento lesivo ed ha per conseguenza una ripartizione di responsabilità;
- il secondo comma presuppone, invece, già verificato l’evento lesivo, riguardando unicamente l’entità delle ripercussioni patrimoniali, ed ha per conseguenza la non risarcibilità di quelle che il creditore avrebbe potuto evitate con la normale diligenza.
La posizione dell’Adunanza Plenaria
Il consolidato quadro di principi elaborati a far data dal fondamentale pronunciamento del Consiglio di Stato in Adunanza plenaria (sentenza n. 3 del 2011) e al quale si sono conformati tutti i successivi arresti giurisprudenziali, ha restituito un assetto così sintetizzato (cfr. ex aliis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2778 del 2018):
– la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, c.p.a., è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 cit.; il comma 2 del suddetto articolo, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c., regola la c.d. causalità giuridica, relativa al nesso tra danno-evento e conseguenze dannose da esso derivanti; la disposizione introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza; sul piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici e, in definitiva, l’abuso dello strumento processuale;
– a mente del comma 2 dell’art. 1227 c.c., il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno); tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.;
– il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose; l’obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende l’esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un facere non corrispondente all’id quod plerumque accidit;
– nel novero dei comportamenti ordinariamente esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo vi rientra anche la proposizione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio, deve darsi risposta affermativa;
– anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno;
– di conseguenza, la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione – anche grazie alla contestuale attivazione della tutela cautelare – avrebbe evitato o mitigato il danno;
– la tutela specifica avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, così integrando la sua omissione la violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile; detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.
Conclusioni
Nel caso di specie il Comune ha negato, con il diniego di concessione edilizia, la circostanza che si fosse formato il silenzio-assenso e ciò sia sotto il profilo della (mancata) maturazione dei relativi termini, sia in ragione della correlate carenza documentale.
Aspetti, questi, che ove tempestivamente resi oggetto di una domanda caducatoria del diniego avrebbero potuto – astrattamente – condurre alla rimozione del diniego medesimo e, ad un tempo, all’accertamento della cristallizzazione dell’(ipoteticamente formatosi) provvedimento implicito di accoglimento dell’istanza di condono senza, peraltro, che la vicenda scontasse – sempre astrattamente – i limiti discendenti dal progetto della nuova pianificazione urbanistica, sopravvenuta alla data di asserita formazione del silenzio-assenso.
D’altronde, anche l’asserito pregiudizio discendente dal ritardo con cui l’Amministrazione avrebbe esaminato l’istanza non si sincronizza con la disciplina in materia di silenzio-assenso la quale, per l’appunto, è volta ontologicamente ad evitare, elidendoli ipso iure, i pregiudizi discendenti dal ritardo con la previsione di un provvedimento tacito che si forma al maturare del termine di legge, se in presenza degli ulteriori presupposti.
Dunque, secondo il Tar la mancata impugnazione del diniego ha “pregiudicato” la richiesta di risarcimento in quanto “può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede” nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione – anche grazie alla contestuale attivazione della tutela cautelare – avrebbe evitato o mitigato il danno.
Avv. Antonino Cannizzo
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